La settimana politica è stata la settimana della piazza. Prima, con le manifestazioni studentesche in varie Università italiane, poi, sabato 25, con la manifestazione del Pd a Roma, tanto attesa, anche se criticata non solo dalla maggioranza ma anche da esponenti del Pd stesso.
E’ stato un evento: quello dell’opposizione e del suo tentativo di dire che c’è ed è viva, con una protesta organizzativamente riuscita, ma politicamente con qualche punto interrogativo.
Andiamo per “aspetti”. Innanzitutto c’è la “guerra” delle cifre. Gli organizzatori, al termine dei due cortei, partiti da punti diversi della città e congiuntisi al Circo Massimo, hanno annunciato l’entità della partecipazione, ribadita da Walter Veltroni quando ha detto: “Quella di oggi è la prima grande manifestazione di massa del riformismo italiano. Siamo due milioni e mezzo di persone”.La questura ha precisato che i partecipanti erano molti di meno: 200 mila. Non è la prima volta che c’è discordanza di valutazione.
Dal punto di vista della capienza geometrica, il Circo Massimo può contenere al più 300 mila persone (73 mila metri quadrati per 4 persone al metro quadro fanno appunto la cifra di circa 300 mila).Tuttavia, la guerra delle cifre l’ha risolta La Stampa, che in un articolo afferma: “Li abbiamo contabilizzati tutti e alla fine abbiamo tratto le somme: i partecipanti alla kermesse del Pd sono stati 240 mila, migliaio più, migliaio meno. Una cifra reale che attesta di una manifestazione ben riuscita”.
Ed ecco il secondo aspetto, quello politico-organizzativo. Se per spiegare la divergenza delle cifre si fa appello alla convenzione esistente tra partiti e sindacati, in base alla quale il numero reale viene tranquillamente, a scopo propagandistico, moltiplicato per 10, per spiegare il successo organizzativo si fa appello comunque al numero che è consistente: non è facile portare in piazza circa 250 mila persone (arrotondiamo anche noi). E’ indubbio che, come ha osservato Pierluigi Bersani, Veltroni ha avuto ragione a volere una manifestazione di piazza (“quando una manifestazione”, ha detto l’ex ministro, “va così bene, vuol dire che aveva ragione lui a volerla”).
L’opposizione, tanto criticata perchè “immobile”, “senza proposte” e “divisa”, ha dimostrato di avere ancora capacità di mobilitazione.
Da ciò discende un corollario: l’opposizione non è la sinistra estremista, non è la frangia capeggiata da Di Pietro, quella, per intenderci, che è stata vista a piazza Navona, insultante, rabbiosa, giustizialista e rumorosa, ma è quella raccolta attorno al Pd.
C’è un altro significato politico della manifestazione, ed è la leadership del segretario, criticato e anche apertamente avversato (Arturo Parisi), ostacolato e imbrigliato da una serie di “poliziotti”che ne vorrebbe indirizzare le scelte (le varie correnti interne), ma che ha voluto riaffermare il “dialogo diretto” con l’elettorato, senza passare per i condizionamenti interni disseminati da una nomenclatura che mal si rassegna a perdere il potere.
Lo scopo dichiarato di Veltroni è quello di creare una classe dirigente che faccia giustizia degli “appesantimenti” del vecchio retaggio della Margherita e dei Ds e che rilanci un percorso per costruire un nuovo partito più che rivolgere uno sguardo all’indietro. Insomma: o si costruisce davvero un nuovo partito o il vecchio sarà destinato sempre a pesare e a pesare negativamente.
Che ci sia una lotta, è evidente, al di là delle smentite di facciata. Massimo D’Alema, pur negando i dissidi, ha dichiarato: “Una manifestazione non è il momento costitutivo di un partito”, alludendo alla scelta dei dirigenti. Piero Fassino, ex segretario dei Ds, ha mostrato di “temere” il rafforzamento del segretario a “colpi di rinnovamento generazionale”.
Insomma, la vecchia idea di Veltroni di creare un partito davvero riformista e di arrivare in Italia ad un bipartitismo non è ben vista. La manifestazione e il successo che ne è derivato serve a far guadagnare tempo al segretario per affinare e rendere praticabile la sua proposta, la quale non è scontato che abbia successo.La prova è il discorso di Veltroni, intriso di slogan, anche allettanti, ma sostanzialmente vuoti di riformismo. Dire che “scende in piazza l’Italia moderata” va bene; dire che “l’Italia è un Paese migliore della destra che lo governa” o che il “premier è inadeguato” va altrettanto bene; ridurre però, sostanzialmente, la proposta politica alla detassazione della tredicesima è un po’ pochino.
Non si può soffiare sulla polemica di piazza e chiedere il “ritiro” del decreto Gelmini. L’Università italiana è un oceano di sprechi e di arretratezze, non si può continuare con 37 corsi di laurea con un solo studente, con 327 facoltà con meno di 15 iscritti, con una distribuzione di diplomi dati in pochi mesi a chiunque solo perché i contributi vengono dati in base al numero degli iscritti.
Allo stesso modo, non si può parlare di “prima mozione razziale del Parlamento” a proposito dei corsi d’inserimento per immigrati che, se non sanno l’italiano (di qui i corsi per impararlo), non possono capire nulla di ciò che si dice in classe e, questo sì, aumenta l’isolamento. Insomma, il vero riformismo non sono gli slogan per tenere buona la parte più arrabbiata del partito.
Ed infine le alleanze. La Stampa dice che Di Pietro, fino ad un certo punto disponibile e deciso a rinvigorire l’alleanza, alla fine, “infastidito” da chi lo rimproverava di averla fatta saltare e dal fatto di non essere mai stato citato, se ne è andato via.
Ecco, il riformismo sono anche le alleanze “compatibili” con il metodo e la sostanza del programma.E questo punto è tuttora un nodo ancora da sciogliere.
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