venerdì 9 novembre 2007

Guardiano del faro - di Roberto Saviano


Che cosa significa per un ventenne conoscere Biagi?

Lo spiega lo scrittore Saviano. Raccontando l'incontro il giorno del ritorno in tv.


Mi sveglia una telefonata della direttrice de 'L'espresso' che mi annuncia la morte di Enzo Biagi, resto nel letto a fissare il soffitto per molto tempo. Mi dicevano che stava male, ma non mi ero preoccupato: Biagi l'avevo visto negli ultimi anni resistere ad ogni commento sulla sua vecchiaia e a chi lo dava già al margine della serafica senilità che ti imbambola e stordisce.

Credevo anche questa volta che ce l'avrebbe fatta a scacciare le ali nere dei corvi su di lui.
Non è stato così.
Biagi nel ricordo degli addetti ai lavori è un'immagine che si sfuma tra editoriali e trasmissioni, architrave della comunicazione democratica italiana. Però non credo di essere in grado di confrontarmi con la sua vita e con quello che ha significato per l'informazione di questo Paese. Anzi ne sono incapace.
Per me e credo di poter dire per la mia generazione è qualcosa di stranamente nuovo e rinnovato.
E che un anziano signore elegantemente immobile dietro la scrivania divenisse riferimento di qualcosa di nuovo risulta strano. Bizzarro. Del tutto lontani da ciò che fu da giovane, direttore severo, cronista velenoso e trasversale, lontani dai suoi rapporti con la Dc con il Pci, per me nulla di tutto questo era Enzo Biagi. Biagi e la sua generazione portano un sapore diverso dalle barbe sessantottine e settantasettine. Libri diversi, niente Mao, assoluta assenza delle derivanti leniniste. Con Enzo Biagi si parlava spesso di Corrado Alvaro, lo scrittore calabrese che amava moltissimo, e che considerava "un raccontatore d'Italia capace di far specchiare l'Italia nell'Aspromonte e riconoscersi". Biagi per me ha sempre significato altro dagli uomini della generazione di mio padre.

Ieri urlanti capovolgimenti imminenti oggi chiosanti impossibilità di mutare. Biagi aveva la qualità di affrontare il frammento del quotidiano. Il problema punto per punto. Senza precipitarsi alla soluzione ma avanzando per ogni passaggio e svolgimento. Quello che le persone volevano ascoltare era ciò di cui lui voleva occuparsi. Essere necessario a chi non ha tempo da perdere.

Il pensiero del quotidiano, tasse, terrorismo, scuola, malattie, fino a connetterle a macro questioni. Far capire, diffondere, divulgare ma anche disciplinare e controllare.
Non ho mai visto Biagi come un cane da guardia della democrazia quanto piuttosto come uno che non ha mai abbandonato la sua vocazione di guardiano del faro della democrazia.
Un guardiano del faro, come Maqroll il gabbiere descritto da Alvaro Mutis, intento a garantire l'illuminazione affinché si possa entrare serenamente in porto piuttosto che guidare le navi, piuttosto che indicargli le rotte, ne illuminava il punto d'arrivo. Affinché tutti potessero scegliere in libertà. Questo il talento di Biagi, e la sua maggior autorevolezza. Parlare ai molti come se fossero nella sua stanza, tutti degni di invito. E mai per un attimo snobbare o cedere alla snobberia del telespettatore da trattare come scimmia nuda davanti allo schermo. L'ultima soglia della resistenza in cui Biagi ha creduto è fare bene le cose. La massima di Elio Petri piaceva ad Enzo Biagi. Era in grado di raccontare l'Italia attraverso la chiarezza del dato. Cosa rara soprattutto per un editorialista che odiava l'editoriale come mero commento individuale. Due fatti uno di faccia all'altro, due idee, due visioni. Il fastidio per le certezze ideologiche, per il bene e il male, per l'ateismo sfrontato per il cattolicesimo che si fa ortodossia, per la politica urlata, per gli intrallazzi silenziosi. Un modo di opporsi proponendosi il contrario di ciò che detestava come contraddizione. Se si odia il cachinno dei politicanti si cercherà la parola autorevole, se si detesta l'approssimazione si afferrerà l'esattezza. Un modo semplice di vivere. Essere diverso da ciò che non si vuole essere. E non cercare invece di piacere a tutti e definire ciò per cui vale la pena prendere posizione. E prendere decisioni forti è stato per Biagi una scelta di riguardo verso la fiducia di chi l'ha ascoltato e solo in un secondo momento verso la sua coscienza. Non trattare il proprio spazio di comunicazione come un trono dove porte contro porte si aprono ai diversi poteri politici facendo divenire opinionisti soubrette e strateghi di approfondimento e portaborse esperti di moduli 740. Quando era rientrato in tv, Enzo Biagi mi aveva chiamato. Lì mi accorsi che ci sono dei momenti in cui hai l'impressione di attraversare il tempo diversamente, come se secondi e minuti si unissero in una specie di coltre, costringendoti a comprendere che ogni momento ti resterà tracciato nella memoria. Vivere il ritorno televisivo di Enzo Biagi è uno di quei momenti. Andai a casa sua, mangiammo insieme. Biagi mi raccontava di episodi vissuti a Napoli, nel dopoguerra. Mi raccontava di strade dove avevo abitato per anni ma nel suo ricordo erano sventrate, buie, eppure riuscivamo a capirci viaggiando nelle cartografie di due secoli diversi. Discutemmo sullo stato di cose, una sorta di ricognizione degli elementi del disastro. Su una politica che non ha la geometria della buona amministrazione e né l'energia di muovere grandi passioni. Su un Paese spaccato in due, dove Nord e Sud non comunicano dove tutto possiede un'unica dimensione del racconto, dove sempre meno si conosce ciò che accade e tutta l'attenzione è rapita dal ginepraio della politica, discutiamo di un paese dove "il pensiero di un parlamentare rischia di avere un'attenzione maggiore rispetto a quello che accade, e il pubblico conosce le sue tristi parole e non ciò che sta accadendo al paese". Biagi mi raccontò di quando era andato al matrimonio di Giovanni Falcone "fino alla fine hanno diffidato di lui, solo con la sua morte è riuscito a dare giustizia al suo lavoro. Che la sua strada era la strada giusta per modificare il mortale rapporto tra Cosa nostra e politica solo dopo la morte tutti l'hanno compreso. Un paese che riconosce queste cose solo dopo il sacrificio è un paese malato". Quando una voce ci chiama: "Al trucco". Ci passano sul viso una specie di ovatta imbevuta di qualcosa. Loris Mazzetti però lo chiama mentre accompagnato dalla figlia Bice sta per andare a sedersi sulla poltroncina della trasmissione. Si guardano: "Enzo, cinque anni, Enzo, cinque anni. Ora torniamo". Biagi si commuove, Mazzetti sembra stringere i denti. È come scoccata un'ora, un momento in cui il veto viene a cadere, aver resistito sembra esser stato il comportamento più corretto, una forza che viene da lontano che ha i muscoli allenati già a superare velenosi pantani melmosi, il fascismo, le Br, la Democrazia cristiana, il Pci, tangentopoli.
Ci incontriamo nello studio, Biagi mi sorride, e sibila
"senza il Sud questo paese sarebbe un paese mutilato, povero.
Non sopporto chi blatera contro il Sud".
Come di una persona che invita a guardare dove le cose contano. L'assenza di Biagi sarà complesso superarla, è come se un matematico perdesse una formula di prova, un modello per risolvere un'equazione. Biagi era così. Anche nel silenzio, si rifletteva su cosa avrebbe detto e pensato, in quale mossa da giaguaro della parola avrebbe rigirato per smontare chi aveva pronunciata. Era un confronto. "Dobbiamo rivederci presto", mi disse, "parlare di molte cose, sono molte le cose che non vanno ma credo ci sia ancora spazio per cambiare". "Certo ci vedremo presto Enzo", gli risposi.

Sapevamo entrambi che non ci saremmo mai più rivisti. Addio Enzo che la terra ti sia lieve.

di Roberto Saviano

9 NOVEMBRE 2007


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