lunedì 25 aprile 2011

FESTA DELLA LIBERAZIONE 2011



Un estratto della Prefazione de "Partigiani della montagna"di Giorgio Bocca
Prima edizione: Istituto grafico Bertello ottobre 1945
Ultima edizione Aprile 2008





La Resistenza cancellata

A ripensarci sessant’anni dopo, ci chiediamo come sia stata possibile quella guerra di liberazione.

Non la Liberazione del 25 aprile 1945, dell’insurrezione, della discesa nella pianura e nelle città, ma la liberazione di ciascuno di noi dal provincialismo, dal fascismo, dal perbenismo piccolo-borghese.

La prima e più importante cosa che i libri di storia non spiegano, che i documenti non raccontano della guerra partigiana è questo stato d’animo di libertà totale ritrovata proprio negli anni in cui un giovane normale conosce il suo destino obbligato: quale posto, quale lavoro, quale ceto, quale donna sono stati preparati e spesso imposti per lui; quale sarà la sua prevedibile vita, quali vizi dovrà praticare per cavarsela, dove troverà il denaro per campare.
E invece, d’improvviso, in un giorno del settembre del ’43, si ritrova totalmente libero, senza re, senza duce, libero e ribelle, con tutta la grande montagna come rifugio.

Libero anche dal denaro e dalla famiglia. Sì, certo, la famiglia e i suoi affetti rimangono, ma che sia ben chiaro, a casa non si torna fin quando dura la meravigliosa avventura della libertà, dell’essere padrone del proprio destino. Alea iacta est, avremmo potuto dirci quel pomeriggio di settembre in cui varcavamo non il Rubicone ma la Stura di Demonte, diretti alla montagna della Val Grana, verso il Comboscuro degli occitani.

Libertà e intransigenza. Noi giovani eravamo stati, nel fascismo morente, dei possibilisti, dei tira a campare, non più fascisti, cauti antifascisti, ma quell’8 di settembre che ci ha fatti rinascere, ci ha dato un’identità nuova, estrema, irriducibile. La normalità è scomparsa, gli altri è come non ci fossero più, restiamo noi e loro, i primi nuclei partigiani come piccole stelle, piccoli fuochi sulle montagne e loro, i tedeschi, che bruciano i nostri villaggi come nel passato i mori, i gallo-ispani, le soldataglie del Delfino. Noi e l’occupante, in una guerra così impari da esaltarci, da indurirci, da farci sembrare nemici tutti quelli che hanno accettato l’occupazione: anche quelli che lavorano per i tedeschi, anche gli impiegati del distretto o del comune.


Quello stato d’animo! Dopo viene la storia e, come tutte le storie, un va e vieni senza ordine: gli uomini e le armi della iv armata arrivata dalla Francia a sciogliersi nel Cuneese, breve illusione cui segue il tutti a casa irresistibile, poi la voce di un prossimo sbarco degli alleati anglo-americani in Liguria, subito smentito. E invece arriva la guerra totale contro un nemico che è, come dice Benedetto Croce, "non l’umano avversario / delle umane guerre / ma l’atroce presente nemico / della umanità": Boves incendiata, gli ebrei di Meina fucilati sul lungolago, il gruppo ribelle di San Martino presso Varese sterminato.

Contro il terrore non c’è che il terrore. Chi, a distanza di soli sessant’anni, giudica la Resistenza dimentica la prova durissima a cui è stata sottoposta. Nei territori occupati cade il rispetto per le donne e per gli infanti. La guerra di Hitler non ha limiti, non c’è speranza di ammansirla, non resta che combatterla. I giorni della libertà ma anche della necessità. I mille che salgono in montagna nel settembre del ’43 devono imparare tutto, e si impara presto quando la storia esce dalle sue forme consuete e mostra la sua faccia feroce.



La politica partigiana



Che cosa era la politica in quei venti mesi? Era le cose concrete della vita, come la ricerca del potere, la rivalità delle formazioni, l’occupazione del territorio, il rapporto con i parroci, con la popolazione, con la sussistenza, con la ricerca delle armi ma come in un sogno, il sogno in cui tutto
è possibile e coesistente, una società liberale dentro una rivoluzione buona e virtuosa, economia di mercato e socializzazione, democrazia per tutti ma solidarietà e vigilanza partigiane.


Ognuno poteva parlare, promettere, mettere assieme i diversi: tanto le verifiche venivano rimandate alla fine della guerra. I garibaldini legati al Partito comunista cantavano "Evviva il comunismo, evviva la libertà" come se fossero la stessa cosa. Noi giovani non sapevamo cosa era stata la democrazia prefascista e neppure cosa era il comunismo di Stalin.


Nella Resistenza virtuosa e creatrice in cui credevamo, in cui dovevamo credere per tenere insieme i nostri uomini, non c’era posto per la storia delle delusioni e delle deviazioni, per la storia come era stata. La lezione del passato veniva cancellata per lasciare libera la speranza del presente.


Non ho conosciuto un solo comunista, di quelli che erano stati in Russia o in Spagna al tempo del Grande terrore, che lo ricordasse, che ci mettesse in guardia e neppure uno dei democratici che avevano aperto la strada al fascismo, che avevano conosciuto i ministri giolittiani "della malavita" come li chiamava Salvemini, che ci parlasse del mercato delle vacche elettorale, che ci avvisasse che esisteva una questione meridionale, un’Italia disunita. E non perché volessero ingannarci, ma perché anche loro erano convinti che la guerra partigiana avrebbe aperto una nuova storia, perché anche loro vivevano in quell’eccitante sospensione della vita reale, della storia reale come capita quando si apre una nuova utopia.

Nobilitava quell’avventura la presenza della morte, quotidiana, inevitabile e l’assenza dello sterco del diavolo, il denaro. Tutto ciò che ci occorreva – armi, farina, carne, casa – o era preda bellica o veniva acquistato con i buoni del Comitato di liberazione nazionale, con le donazioni degli industriali, con fondi trovati nella cassa della iv armata che era stata di presidio alla Francia del Sud, e persino con il contrabbando di denaro con la Svizzera. Per mesi andai in giro senza una lira in tasca, come si diceva di Gianni Agnelli, a cui tutti davano e di cui tutti si fidavano. La nostra politica intransigente con il nemico tedesco o fascista era nelle nostre formazioni tollerante e ottimista. I quadri del Partito comunista avevano con i loro uomini e con noi di altre formazioni un rapporto flessibile. Si provavano a introdurre nella inafferrabilità del partigianato alcune direttive elementari del leninismo, ma si fermavano appena capivano che erano controproducenti perché essere garibaldini non significava essere comunisti, più spesso mossi dalla casualità, dalle amicizie. Basti ricordare che il comando dei garibaldini piemontesi era affidato a un gruppo di ufficiali di cavalleria che avevano seguito in Val Po il comunista in guanti bianchi Pompeo Colajanni, antifascista siciliano.

Come aveva intuito Vittorio Foa, la politica partigiana era la politica delle larghe alleanze democratiche già sperimentata nella guerra di Spagna. In sostanza un riformismo socialdemocratico che per la prima volta annullava le millenarie divisioni di classe facendo rientrare fra i cittadini di pieno diritto gli operai e i contadini. Quella fabbrica della democrazia che era la guerra partigiana, la solidarietà tra combattenti contro un comune nemico avevano cancellato i pregiudizi e le opposte propagande. Ci si poteva fidare di un comunista come di un badogliano, il monarchico reazionario
Edgardo Sogno rischiava la vita per liberare Ferruccio Parri, il capo di "Giustizia e Libertà", io appena arrivato nelle Langhe dalla montagna trovavo naturale fare visita di cortesia al maggiore Mauri comandante dei fazzoletti blu monarchici.

Lo spirito di corpo era scambiato spesso per una scelta politica ma a nessuno di noi veniva in mente di interrogarci, di confessarci sulla scelta di una formazione. La nostra politica era una mescolanza di tradizione e di rinnovamento, di recupero del passato e di società nascente. Ci presentavamo alla gente come i rinnovatori dell’ordine costituito ma senza ben capire come, stampavamo giornali in cui si parlava di democrazia, di liberalsocialismo, di comunismo senza sapere bene di che si trattasse ma con la convinzione che tutto si sarebbe risolto nel migliore dei modi. I comunisti avevano rispetto agli altri una superiore esperienza di cospirazione e di metodo del potere. Furono i primi a usare in modo spregiudicato l’arma della propaganda, a chiamare brigate, divisioni i loro gruppi numerosi ma male armati e male comandati. Ma dovemmo seguirli perché alla propaganda non si resiste, fummo per così dire costretti a dare nomi altisonanti anche alle nostre formazioni, chiamarle divisioni alpine "Giustizia e Libertà", opporre ai loro fazzoletti rossi quelli verdi come le mostrine degli alpini, il mito delle penne nere a quello dell’eroe dei due mondi. Ma nella moderazione dei quadri comunisti c’era altro che non conoscevamo.


L’ombra dello stalinismo che li aveva seguiti in Russia e in Spagna.



1 commento:

  1. INVITO TUTTI A LEGGERE PARTIGIANI DELLA MONTAGNA!
    HO LETTO QUESTO TESTO 2 VOLTE, SONO DISPOSTA A PRESTARLO A CHIUNQUE VOGLIA "INFORMARSI" SULLA NOSTRA BELLA, IMPORTANTE E PESANTE STORIA!

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