Quel gesto disperato
nella città senza vergogna
E' SEMPRE un mistero la ragione che spinge a uccidersi perché il suicidio è sempre e soltanto questo semplice fatto: un uomo preferisce la morte alla vita.
Quale sia l'urgenza della scelta, quale sia la tossina intollerabile che la provoca, apparirà ai vivi sempre un passo incongruo. Un eccesso rispetto all'irreversibilità dell'addio. Chi può dire perché Giorgio Nugnes si è impiccato? Nessuno, e il suo gesto imporrebbe soltanto silenzio e pietà e malinconia. Ma Nugnes era un personaggio pubblico.
La sua decisione lascia un segno profondo in una città disgraziata, una ferita collettiva nella sua comunità, che sarebbe insolente lasciar cadere. In queste ore, c'è chi evoca altri suicidi e altre stagioni della Repubblica.
La morte di Gabriele Cagliari, la morte di Raul Gardini, le nobili parole di Sergio Moroni.
La disperazione di uomini che giudicarono preferibile la morte a una vita ormai insostenibile perché indegna se vissuta in carcere; perché umiliata dagli errori del passato; perché travolta dalla distruzione di un mondo che ora precipitava sul loro destino, e soltanto sul loro, il peso del conformismo di tutti, la colpa e la corresponsabilità di ognuno.
L'accostamento mi sembra improprio. Non credo che il suicidio di Nugnes possa essere paragonato a quei suicidi. La sua morte porta con sé un altro marchio collettivo più grandioso e, al tempo stesso, più sinistro. Giorgio Nugnes era un uomo molto amato a Pianura.
Pianura non è Napoli. Non è soltanto un quartiere di Napoli, al di là della collina dei Camaldoli. è un altro luogo. Separato, autonomo dalla grande città. Con una spiritualità indipendente. Chi ci abita è fiero di questa alterità. Lo era anche Nugnes che, di quella comunità, era un modello. Abitava in fondo a una viuzza stretta stretta dove la campagna ancora non ha ancora ceduto del tutto al cemento; una via abitata da fratelli, cugini, nipoti, una famiglia ospitale e giudicata generosissima. Della comunità di Pianura, Nugnes era il leader.
La sentiva così sua, così costituzionalmente parte di sé e ragione della sua esistenza pubblica e privata, che non ha avuto alcun dubbio da che parte stare quando scoppiò la rivolta contro la riapertura della discarica, durante i giorni della crisi della monnezza. Stava dalla parte della sua gente. Assessore, partecipava ai tavoli di crisi in municipio e in prefettura.
Leader della sua comunità, svelava subito dopo alla sua gente i piani e le strategie della polizia per spezzare i blocchi stradali. Fu arrestato per associazione a delinquere. Si sentiva a posto con la sua coscienza. "E' vero ? disse - mi sono battuto contro la riapertura della discarica. Mi accusano di avere organizzato blocchi stradali, ma a volte questa resistenza pacifica evita un corpo a corpo più pericoloso. Ho sempre difeso fino in fondo la gente del mio quartiere. Siamo cresciuti con l'olezzo della discarica a Pianura, non permetteremo, non permetterò che la riaprano".
Giorgio Nugnes diceva le sue colpe, non ne confessava nessuna.
Giorgio Nugnes diceva le sue colpe, non ne confessava nessuna.
Poteva farlo perché la felicità, la sua felicità, gli appariva una virtù sociale.
A Pianura, tra la sua gente, non avrebbe avvertito alcun peso, alcuna colpa, alcuna responsabilità. La decisione di allontanarlo dal suo quartiere deve averlo colpito peggio di una sentenza di condanna. Negli ultimi giorni, lo diceva a tutti quelli che avevano voglia di ascoltarlo. L'ostracismo (doveva abitare lontano da Pianura e poteva rientrare a casa, per la notte, soltanto tre giorni la settimana) lo avrebbe precipitato nell'isolamento, nella solitudine, nell'oscurità. Lontano dalla sua gente, si sarebbe sentito un escluso e un estraneo.
E soprattutto quel che a Pianura era un gesto solidale e responsabile sarebbe apparso altrove, agli altri, un deplorevole inganno, una mossa colpevole di cui vergognarsi. Lontano dalla sua comunità, Nugnes è stato ucciso dalla vergogna (forse aggravata dalle voci che annunciavano una nuova inchiesta, altri severi provvedimenti). E' terribile dirlo o anche soltanto pensarlo, ma lo scuorno che ha ucciso Nugnes è l'amaro turbamento che può restituire, se compreso, decoro a una città, dignità a un ceto politico che sembra aver smarrito il senso della vergogna.
Le istituzioni pubbliche cittadine, assediate dalle inchieste giudiziarie, dalle rivelazioni degli sperperi, oggi appaiono aggrappate tenacemente alle proprie rendite politiche. Il suicidio di Giorgio Nugnes racconta anche questo. Ammesso che si abbia la voglia di decifrarlo, racconta quanto sia grave e profonda la crisi di una città che apprezza, come virtù, l'ostinazione del potere, la flessibilità morale, la protezione degli interessi particolari, la difesa della rendita politica e, come missione, la gelosa custodia del consenso anche quando questi veleni distruggono giorno dopo giorno la rispettabilità di Napoli, dei napoletani e, irrimediabilmente, il loro futuro.
Che Giorgio Nugnes pace trovi, e riposo.
di Giuseppe D'Avanzo
(tratto da la Repubblica 30/11/2008)
"Mi sono battuto contro la riapertura della discarica. E' vero.
La giustizia mi accusa di avere organizzato blocchi stradali?
Ma a volte questa resistenza pacifica evita
un corpo a corpo più pericoloso.
Ho sempre difeso fino in fondo la mia gente del mio quartiere".
Giorgio Nugnes
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